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mercoledì, aprile 7

Letteratura e viaggio (prima parte) 

Ho ritrovato nella cartella dei documenti questo file che si chiama "Viaggi di carta": è un modesto articoletto che scrissi un paio d'anni fa sul viaggio nella letteratura, un esercizio per un esame all'università.
Ve lo propongo, pubblicandolo in tre parti separate, che tutto insieme ho paura annoierebbe troppo.


VIAGGI DI CARTA
Appunti di letteratura e viaggio


I. Da Odisseo all'America

Il viaggio è esperienza antropologica primaria, fondante e fondamentale per l’identità individuale e della comunità: la letteratura, di tutte le nazioni e di tutti i periodi storici, ha raccontato di viaggi e viaggiatori, attribuendo loro di volta in volta valori e metafore diverse.
L’atto stesso dello scrivere e quello del leggere, si prestano ad essere concepiti come viaggi: il testo può essere visto come un percorso che ha un suo intreccio e può avere o meno una sua meta, ma che comunque il lettore intraprende, guidato dall’autore. Figure di questo tipo le ritroviamo in molte opere letterarie, dalla Commedia, all’Orlando furioso, ai Promessi sposi, ma mi limiterò ad una sola citazione, che forse non è la più esemplare, ma sicuramente è una delle più belle: dal Cavaliere inesistente di Italo Calvino riporto questa riflessione sulla scrittura fatta dalla stessa narratrice del romanzo, Suor Teodora:
"La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c'è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli del libro. La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade. Il capitolo che attacchi e non sai ancora quale storia racconterà è come l'angolo che svolterai uscendo dal convento e non sai se ti metterà a faccia un drago, uno stuolo barbaresco, un'isola incantata, un nuovo amore."

Imbarcarsi in un tema del genere non è da prendere alla leggera: si potrebbe scrivere centinaia di pagine senza esaurire mai l’argomento, io mi limiterò a evidenziare solo alcune piste di questa mappa sterminata.

Comincio col fissare uno spartiacque: il medioevo. Come è stato notato da Leed , si può parlare per il nostro tema di una dicotomia, tra il viaggio "antico" e il viaggio "moderno".
Il primo ha come archetipi l’esodo degli ebrei nella Bibbia e l’Odisseo omerico. Questo viaggio antico si connota soprattutto nei termini di una sofferenza, di un lungo e quasi interminabile travaglio: l’espulsione dalla terra promessa, l’angoscia dell’esilio, la maledizione divina, la peregrinazione tortuosa e labirintica con nel cuore solo l’agognato ritorno... e così via.
Il viaggio moderno invece è soprattutto libertà, svago, seduzione, conoscenza, fuga. Certo, viaggiare oggi è più sicuro, è più comodo, e non si ha la paura di incorrere in qualche maledizione per aver valicato determinate colonne d’Ercole; ma ovviamente questo cambio di prospettiva è soprattutto il frutto di nuove filosofie e nuove idee.
Il primo segnale del cambiamento si ha, come ho già accennato, nel medioevo, con il padre della nostra letteratura e con una citazione colta: l’Ulisse dantesco (Inferno XXVI, 76-142). Questo Ulisse segna evidentemente e irreparabilmente una crisi: sovversivo e avventuriero, s’imbarca per un ultimo viaggio, alla fine del quale troverà il naufragio, non un nostos (ritorno) quindi, non una condanna, ma una scelta consapevole verso l’ignoto, per sete di conoscenza. Interessante mi sembra far notare che Dante non condanna Ulisse per la sua curiositas, per essere andato oltre il consentito, ma per la sua natura fraudolenta, per i suoi numerosi inganni e bugie. Dante ammira Ulisse, gli mette in bocca una "orazion picciola" che è il manifesto di quella che di lì a un secolo sarà la generazione degli umanisti. Inoltre Dante si sente coinvolto e vicino a Ulisse, perché anche lui sta viaggiando, si sta avventurando verso l’ignoto, e anche il suo è un percorso di conoscenza, ma ciò che li distingue è che il viaggio di Dante è illuminato dalla grazia e voluto da Dio, cosa che invece non era data ad Ulisse, che per ciò fallisce.
L’Ulisse dantesco, quindi, ho detto segna la modernità, modernità che però a quanto pare si annuncia in modo tragico: l’oltre che Ulisse ricerca viene a coincidere con il nulla.

L’età moderna viene tradizionalmente fatta inaugurare dal 1492, anno della scoperta dell’America, evento fondamentale anche per il nostro tema, ed evento straordinario, in cui storia e poesia si incontrano e divengono intertesti.
Le scoperte geografiche vennero lette tipologicamente: l’America non era solo il nuovo mondo, ma era anche il luogo della fantasia, dell’innocenza, era l’Eden ritrovato. Colombo è visto come novello Ulisse. Gli esploratori si imbarcano nell’impresa con il loro bagaglio culturale di secoli di storia e poesia, il loro sguardo sull’altro non è uno sguardo obiettivo ma etnocentrico, il loro giudizio è filtrato, le loro descrizioni impure, inquiete, riecheggianti di miti, di sogni, di incubi, di desideri, di speranze.
Esemplare per capire l’impatto che la nuova realtà ebbe sull’uomo dell’epoca è la lettera che Cristoforo Colombo scrive nel 1493 a Luis De Santangel, finanziatore di Ferdinando d’Aragona, per annunciare la scoperta. Una lettera molto bella dal punto di vista della freschezza e dell’ingenuità delle immagini. La "meraviglia" è la parola chiave per Colombo, e la similitudine la figura retorica più ricorrente nella sua scrittura: l’incontro con il nuovo genera in un primo tempo stupore e paura, in un secondo il confronto con il noto; non possedendo il lessico adeguato per descrivere la meraviglia della scoperta la si riporta entro i termini del quotidiano, per farci coraggio, rassicurarci e diminuire lo scarto.
La stessa operazione la farà poi Amerigo Vespucci in una serie di lettere che invia agli amici fiorentini, la più famosa quella indirizzata a Lorenzo De Medici nel 1503, scritta in elegante latino; un piccolo capolavoro della nostra letteratura umanistica. A proposito, Todorov fa notare la stranezza del nome America da Amerigo: perché non Colombia? I viaggi di Vespucci, in fondo, non sono nemmeno sicuri, lui poi non era nemmeno il capo della spedizione... eppure l’America si chiama proprio America. Todorov dice che è perché Amerigo ci ha regalato "i migliori racconti": il premio va allo scrittore, quindi, non allo scopritore. Nella sua lettera, Vespucci mira soprattutto a sbalordire i lettori; la "meraviglia" è qualcosa di indotto, di profondamente costruito, fa parte della strategia, della retorica del testo, e importante è notare anche i destinatari: scrive ad un gruppo di umanisti, di intellettuali, scrive per la gloria, Colombo invece scrive ai reali di Spagna e ai loro finanziatori, il suo intento è solo quello di giustificare la scoperta, di dimostrare che i loro soldi sono stati spesi bene.

(continua...)