sabato, aprile 10
Letteratura e viaggio (seconda parte)
Ecco la seconda parte dei "Viaggi di carta".
Segue da qui.
II. I poemi cavallereschi e i cannibali
Un genere letterario che ha trattato ampiamente di viaggi è il poema cavalleresco, fiorito in Italia tra Quattrocento e Cinquecento e che ha alle sue origini il romanzo cortese, nel quale cavalieri erranti vagavano nelle selve dell’Europa centrale con un pretesto, generalmente quello di salvare la donzella amata da un qualche pericolo.
Il nostro maggior narratore in questo senso è stato Ariosto, che quando decide di metter mano a questa materia lo fa con lo scopo di rivisitarla dal punto di vista ironico. I suoi cavalieri vagano sì alla ricerca di un loro oggetto del desiderio, che per molti di loro è la bella Angelica, per altri un elmo, un cavallo, o il senno di Orlando; ma queste inchieste si rivelano nella maggior parte dei casi vane, ed è un bene, per il lettore, perché è questo il pretesto usato per innescare infiniti gustosissimi motivi narrativi: si cerca una cosa e se ne trova un’altra, si desidera qualcuno che è desiderato anche da qualcun altro, allora ci si ostacola, ci si sfida, ci sono continui differimenti, agnizioni, riunioni... Il racconto di Ariosto è un enorme calderone, o meglio una trama fittissima, di personaggi e avventure, strettamente tenute insieme dalla maestria di un narratore abilissimo e smaliziato, coinvolto e ironico. I protagonisti delle varie vicende viaggiano continuamente, e palcoscenico delle loro peregrinazioni è tutto il globo terrestre, e non solo, viene chiamato in causa anche l’aldilà e la Luna. Il viaggio sulla Luna di Astolfo (Orlando furioso XXXIV) è infatti il più sorprendente dell’intero libro, e anche il più preziosamente e finemente intertestuale. Le fonti sono innanzi tutto l’itinerario dantesco, poi la letteratura umanistica fondata sul paradosso: Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla, Erasmo da Rotterdam... Il fine di questo viaggio è il recupero del senno di Orlando, racchiuso in un’ampolla in questo alter-mondo della Luna, in cui si trova ciò che è stato perso sulla Terra. Fortemente parodico e comico è l’episodio, l’acquisizione della ragione da parte del pellegrino è vana e provvisoria, Ariosto stesso lo fa notare, precisando che quanto è stato recuperato non tarderà ad essere perduto di nuovo, la vera conoscenza alla quale si può giungere è il riconoscere che tutto il mondo è in fondo dominato da una sottile e perversa logica di follia, che ci fa viaggiare intorno alle cose senza farcele mai possedere davvero, ed è in fondo questa la stessa logica del poema.
Altro scrittore "cavalleresco" è Tasso, che scrive cinquant’anni dopo l’Orlando furioso, la Gerusalemme liberata, poema epico di nuova generazione, calato in un clima di controriforma, risente degli sconvolgimenti politici, sociali e etici dell’epoca, e della tensione della fragile e genialmente folle mente del suo creatore. In un solo punto del racconto Tasso si lascia andare alla narrazione di un viaggio avventuroso: al Canto XV, con versi di mirabile bellezza. Per l’unica volta in tutta la Liberata viene qui usata la parola tecnica "inchiesta": un cavaliere si è perduto, e altri due cavalieri vanno a cercarlo, viaggiano in mare, costeggiando le sponde dell’Africa settentrionale, fino a raggiungere le isole dove la maga Armida tiene prigioniero l’oggetto del suo desiderio, Rinaldo. Interessante è il modo in cui vengono descritti i luoghi e i popoli africani: le cifre fondamentali sono la molteplicità, l’innumerabilità, da una parte, e il deserto, dall’altra. I popoli stranieri, i pagani, sono numerosi e vari, e per questo mostruosi e diversi: questo punto deve essere letto da una prospettiva politica, come ho detto siamo in pieno clima controriformista, a Tasso premeva mostrare i pagani come disuniti e immorali, per contrapporli all’unità e alla moralità dei cristiani. L’altra cifra è quella del deserto: vengono descritti luoghi deserti e desolati, e anche questo fa parte della denuncia: il mondo pagano è desolato, è precario, non può salvarsi ed è destinato a cadere; ma c’è un punto molto bello in cui Tasso fa un elogio di Cartagine, come ci fu raccontata dalla letteratura antica, da Omero, da Virgilio, da Lucano... perché navigare quel tratto del Mediterraneo significa ripercorrere anche delle acque letterarie. Interessante questa prospettiva duplice e contraddittoria, tipica: estinzione, giusta, del mondo pagano ma anche omaggio, pena e sofferenza per la decadenza di questo mondo in cui hanno trionfato i valori umanistici.
La prospettiva etnocentrica che ho evidenziato per le scoperte geografiche ovviamente si estendeva anche alle rappresentazioni del selvaggio: visto o come "buon selvaggio", che vive secondo natura, innocente e ingenuo, oppure come feroce, spietato e mostruoso cannibale.
Per molti decenni queste due visioni si alternano nell’immaginario europeo, l’illuminismo, in piena e razionale crisi della coscienza europea, cerca di scardinarle. In particolare Montaigne, nel suo saggio sui Cannibali, in cui il punto di vista è proprio quello del selvaggio, che guarda alla nostra società e la critica ferocemente. Il selvaggio è qui promosso a filosofo, è una maschera che Montaigne usa per poter dire cose che non avrebbe potuto/osato dire in prima persona, e viene a prendere il posto del folle, del buffone; quello, l’unico, che si può permettere di dire che il re è nudo.
(continua...)
Segue da qui.
II. I poemi cavallereschi e i cannibali
Un genere letterario che ha trattato ampiamente di viaggi è il poema cavalleresco, fiorito in Italia tra Quattrocento e Cinquecento e che ha alle sue origini il romanzo cortese, nel quale cavalieri erranti vagavano nelle selve dell’Europa centrale con un pretesto, generalmente quello di salvare la donzella amata da un qualche pericolo.
Il nostro maggior narratore in questo senso è stato Ariosto, che quando decide di metter mano a questa materia lo fa con lo scopo di rivisitarla dal punto di vista ironico. I suoi cavalieri vagano sì alla ricerca di un loro oggetto del desiderio, che per molti di loro è la bella Angelica, per altri un elmo, un cavallo, o il senno di Orlando; ma queste inchieste si rivelano nella maggior parte dei casi vane, ed è un bene, per il lettore, perché è questo il pretesto usato per innescare infiniti gustosissimi motivi narrativi: si cerca una cosa e se ne trova un’altra, si desidera qualcuno che è desiderato anche da qualcun altro, allora ci si ostacola, ci si sfida, ci sono continui differimenti, agnizioni, riunioni... Il racconto di Ariosto è un enorme calderone, o meglio una trama fittissima, di personaggi e avventure, strettamente tenute insieme dalla maestria di un narratore abilissimo e smaliziato, coinvolto e ironico. I protagonisti delle varie vicende viaggiano continuamente, e palcoscenico delle loro peregrinazioni è tutto il globo terrestre, e non solo, viene chiamato in causa anche l’aldilà e la Luna. Il viaggio sulla Luna di Astolfo (Orlando furioso XXXIV) è infatti il più sorprendente dell’intero libro, e anche il più preziosamente e finemente intertestuale. Le fonti sono innanzi tutto l’itinerario dantesco, poi la letteratura umanistica fondata sul paradosso: Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla, Erasmo da Rotterdam... Il fine di questo viaggio è il recupero del senno di Orlando, racchiuso in un’ampolla in questo alter-mondo della Luna, in cui si trova ciò che è stato perso sulla Terra. Fortemente parodico e comico è l’episodio, l’acquisizione della ragione da parte del pellegrino è vana e provvisoria, Ariosto stesso lo fa notare, precisando che quanto è stato recuperato non tarderà ad essere perduto di nuovo, la vera conoscenza alla quale si può giungere è il riconoscere che tutto il mondo è in fondo dominato da una sottile e perversa logica di follia, che ci fa viaggiare intorno alle cose senza farcele mai possedere davvero, ed è in fondo questa la stessa logica del poema.
Altro scrittore "cavalleresco" è Tasso, che scrive cinquant’anni dopo l’Orlando furioso, la Gerusalemme liberata, poema epico di nuova generazione, calato in un clima di controriforma, risente degli sconvolgimenti politici, sociali e etici dell’epoca, e della tensione della fragile e genialmente folle mente del suo creatore. In un solo punto del racconto Tasso si lascia andare alla narrazione di un viaggio avventuroso: al Canto XV, con versi di mirabile bellezza. Per l’unica volta in tutta la Liberata viene qui usata la parola tecnica "inchiesta": un cavaliere si è perduto, e altri due cavalieri vanno a cercarlo, viaggiano in mare, costeggiando le sponde dell’Africa settentrionale, fino a raggiungere le isole dove la maga Armida tiene prigioniero l’oggetto del suo desiderio, Rinaldo. Interessante è il modo in cui vengono descritti i luoghi e i popoli africani: le cifre fondamentali sono la molteplicità, l’innumerabilità, da una parte, e il deserto, dall’altra. I popoli stranieri, i pagani, sono numerosi e vari, e per questo mostruosi e diversi: questo punto deve essere letto da una prospettiva politica, come ho detto siamo in pieno clima controriformista, a Tasso premeva mostrare i pagani come disuniti e immorali, per contrapporli all’unità e alla moralità dei cristiani. L’altra cifra è quella del deserto: vengono descritti luoghi deserti e desolati, e anche questo fa parte della denuncia: il mondo pagano è desolato, è precario, non può salvarsi ed è destinato a cadere; ma c’è un punto molto bello in cui Tasso fa un elogio di Cartagine, come ci fu raccontata dalla letteratura antica, da Omero, da Virgilio, da Lucano... perché navigare quel tratto del Mediterraneo significa ripercorrere anche delle acque letterarie. Interessante questa prospettiva duplice e contraddittoria, tipica: estinzione, giusta, del mondo pagano ma anche omaggio, pena e sofferenza per la decadenza di questo mondo in cui hanno trionfato i valori umanistici.
La prospettiva etnocentrica che ho evidenziato per le scoperte geografiche ovviamente si estendeva anche alle rappresentazioni del selvaggio: visto o come "buon selvaggio", che vive secondo natura, innocente e ingenuo, oppure come feroce, spietato e mostruoso cannibale.
Per molti decenni queste due visioni si alternano nell’immaginario europeo, l’illuminismo, in piena e razionale crisi della coscienza europea, cerca di scardinarle. In particolare Montaigne, nel suo saggio sui Cannibali, in cui il punto di vista è proprio quello del selvaggio, che guarda alla nostra società e la critica ferocemente. Il selvaggio è qui promosso a filosofo, è una maschera che Montaigne usa per poter dire cose che non avrebbe potuto/osato dire in prima persona, e viene a prendere il posto del folle, del buffone; quello, l’unico, che si può permettere di dire che il re è nudo.
(continua...)