mercoledì, aprile 28
Mi sto preparando una listina di libri da comperare.
Sono ben accetti (anzi siete pregati di darne) suggerimenti in merito.
martedì, aprile 27
Tutti i film di Bill
Ecco qua una guida, a quanto pare completa, a tutte le citazioni e i riferimenti a altri film presenti in Kill Bill.
(grazie a Marcello)
Domanda: ma dov'è che viene ripreso il motivo di Sette note in nero, il film del papà di Antonella (uno dei più terrorizzanti horror che ricordi di aver mai visto), che io non ci ho fatto proprio caso?
p.s. ma forse non si riferisce al motivo musicale, ma al tema della sepolta viva? uhm... può darsi... ma nel film di Fulci era "murata" ad esser precisi, e si trattava di una ripresa di Edgar Allan Poe... mah.
(grazie a Marcello)
Domanda: ma dov'è che viene ripreso il motivo di Sette note in nero, il film del papà di Antonella (uno dei più terrorizzanti horror che ricordi di aver mai visto), che io non ci ho fatto proprio caso?
p.s. ma forse non si riferisce al motivo musicale, ma al tema della sepolta viva? uhm... può darsi... ma nel film di Fulci era "murata" ad esser precisi, e si trattava di una ripresa di Edgar Allan Poe... mah.
domenica, aprile 25
kill bill vol.2
Stavolta lascio scrivere la recensione ad un carissimo amico.
Non ci sono spoiler, buona lettura!
.
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Quentin Tarantino ha deciso di farci aspettare un po' prima di dirci come la sposa avrebbe ucciso Bill. Lui stesso ha affermato di non voler annoiare lo spettatore con un film lungo oltre quattro ore. Come tutti coloro che qualche mano sbucata da chissà quale parte dell'olimpo ha reso immortali grazie allo straordinario dono che si chiama talento, possiede qualcosa di altrettanto grande: l'umiltà.
Credo che se anche kill bill fosse durato 5 o 6 ore non mi sarei annoiato.
Gli aggettivi non renderebbero giustizia a quello che ho visto poco fa.
Più semplicemente mi sento di dire che quando vedi, ascolti un film scritto da qualcuno che sa rendere vera un'emozione e che con le parole e le immagini indurti a sperare che quella che stai vedendo non sarà la scena che precede i titoli di coda, dicevo mi sento di dire semplicemente grazie.
Peraltro la stessa sensazione o necessità che provo davanti ad un'opera d'arte resa tale dal genio dell'artista. Non capita spesso, grazie a dio, del resto anche De Andrè in quella canzone cantava più o meno: ''...come tutte le più belle cose vivesti tre giorni come le rose...''
Ora basta, il film é al cinema, può essere vostro.
Saluti,
Antonio Taviani
Non ci sono spoiler, buona lettura!
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Quentin Tarantino ha deciso di farci aspettare un po' prima di dirci come la sposa avrebbe ucciso Bill. Lui stesso ha affermato di non voler annoiare lo spettatore con un film lungo oltre quattro ore. Come tutti coloro che qualche mano sbucata da chissà quale parte dell'olimpo ha reso immortali grazie allo straordinario dono che si chiama talento, possiede qualcosa di altrettanto grande: l'umiltà.
Credo che se anche kill bill fosse durato 5 o 6 ore non mi sarei annoiato.
Gli aggettivi non renderebbero giustizia a quello che ho visto poco fa.
Più semplicemente mi sento di dire che quando vedi, ascolti un film scritto da qualcuno che sa rendere vera un'emozione e che con le parole e le immagini indurti a sperare che quella che stai vedendo non sarà la scena che precede i titoli di coda, dicevo mi sento di dire semplicemente grazie.
Peraltro la stessa sensazione o necessità che provo davanti ad un'opera d'arte resa tale dal genio dell'artista. Non capita spesso, grazie a dio, del resto anche De Andrè in quella canzone cantava più o meno: ''...come tutte le più belle cose vivesti tre giorni come le rose...''
Ora basta, il film é al cinema, può essere vostro.
Saluti,
Antonio Taviani
giovedì, aprile 22
Oramai le donne sono autosufficienti.
In questo breve articoletto dell'Ansa apprendo una notizia inquietante: è nato un topo da un ovulo non fecondato. Insomma, per la riproduzione della specie il maschio non è più indispensabile e le signore possono benissimo cavarsela da sole. Chi è il colpevole? Ma il solito gruppo di scienziati giapponesi, c'era da chiederlo? Ora, capisco benissimo che le applicazioni di questa partenogenesi tra i mammiferi potrebbero essere tantissime e molto utili. Però svegliarmi una mattina qualunque e sentirmi dire da un gruppo di misogeni giapponesi pentiti che il maschio non conta più una mazza, dà un certo fastidio... Un ulteriore passo verso la completa emancipazione femminile? Cosa significherà da ora in avanti essere femminista? Brrr... mi vengono i brividi a pensarci.
A questo punto divento apocalittico. Chi si ricorda il mondo tutto femminile di "Ho sposato un'aliena" con Kim Basinger e Dan Aykroyd?
Il maschio è già in via d'estinzione... chi ci salverà?
A questo punto divento apocalittico. Chi si ricorda il mondo tutto femminile di "Ho sposato un'aliena" con Kim Basinger e Dan Aykroyd?
Il maschio è già in via d'estinzione... chi ci salverà?
mercoledì, aprile 21
Be', almeno in famiglia c'è qualcuno che sa come si comperano le macchine!
Altro che Manuele.
Eccola qua: vista, presa, pagata.
Me la danno martedì.
Altro che Manuele.
Eccola qua: vista, presa, pagata.
Me la danno martedì.
martedì, aprile 20
Una volta ascoltavo l'Heavy Metal
C'è stato un tempo in cui compravo ogni quindici giorni "metal shock" e ogni mese "Psicho!".
C'è stato un tempo in cui mi svenavo per comprare decine di CD originali dei più sconosciuti gruppi metal svedesi, norvegesi, finlandesi, tedeschi. Un tempo in spaccavo le casse dello stereo ascoltando a tutto volume gli Opeth, i Blind Guardian, i Gamma Ray, i Savatage, i Cradle of filth, gli Angra...
Un tempo in cui mi interessava sapere che differenze c'erano tra l'Epic Metal e il Classic Metal e lo Speed Metal e il black metal e il death metal e il brutal death metal... (potrei continuare per ore solo nell'elenco)
E individuare le tendenze, capire le evoluzioni, anticiparne i trend.
Quella musica, ricordo, mi entrava nelle vene... mi faceva esaltare, saltare, cantare. Il venerdì, il sabato e la domenica andavo sempre a pogare in quei due-tre locali in Toscana dove mettevano quella musica. Tornavo a casa sfinito, indolenzito...
Il sabato e il lunedì andavo a scuola col giacchetto di pelle ancora puzzolente per il fumo della sera prima. Mi presentavo sempre in ritardo, con gli occhi rossi e stanchi, con l'aria trasandata e senza voce e con in testa la musica che ascoltavo in cuffia lungo la strada...
Poi mi misi con Chiara e, come spesso capita, la pulzella riuscì ad addolcire il mio life-style.
Perché racconto tutto questo? Semplice, perché ieri sera in macchina mi ero portato qualcuno di quei vecchi CD. Era da una vita che non li mettevo...
Ho riascoltato con nostalgia gli Hammerfall di "Glory to the brave" e i Virgin Steele di "Invictus".
Con nostalgia e amarezza... le sensazioni non sono più quelle di un tempo. Non mi esalto più, non mi emoziono più al primo riff di chitarra, non mi viene più l'istinto di cantare quelle canzoni. Gli Hammerfall soprattutto mi sono sembrati puerili, sterili, inutili. Come un film di Pieraccioni, come una canzone di Nek.
Ok, sono cambiati i gusti, sono cambiati i pensieri, sono cambiate le situazioni.
Ma il problema è che sono cambiato io, molto di più di quanto avrei creduto.
Non mi diverto più.
C'è stato un tempo in cui mi svenavo per comprare decine di CD originali dei più sconosciuti gruppi metal svedesi, norvegesi, finlandesi, tedeschi. Un tempo in spaccavo le casse dello stereo ascoltando a tutto volume gli Opeth, i Blind Guardian, i Gamma Ray, i Savatage, i Cradle of filth, gli Angra...
Un tempo in cui mi interessava sapere che differenze c'erano tra l'Epic Metal e il Classic Metal e lo Speed Metal e il black metal e il death metal e il brutal death metal... (potrei continuare per ore solo nell'elenco)
E individuare le tendenze, capire le evoluzioni, anticiparne i trend.
Quella musica, ricordo, mi entrava nelle vene... mi faceva esaltare, saltare, cantare. Il venerdì, il sabato e la domenica andavo sempre a pogare in quei due-tre locali in Toscana dove mettevano quella musica. Tornavo a casa sfinito, indolenzito...
Il sabato e il lunedì andavo a scuola col giacchetto di pelle ancora puzzolente per il fumo della sera prima. Mi presentavo sempre in ritardo, con gli occhi rossi e stanchi, con l'aria trasandata e senza voce e con in testa la musica che ascoltavo in cuffia lungo la strada...
Poi mi misi con Chiara e, come spesso capita, la pulzella riuscì ad addolcire il mio life-style.
Perché racconto tutto questo? Semplice, perché ieri sera in macchina mi ero portato qualcuno di quei vecchi CD. Era da una vita che non li mettevo...
Ho riascoltato con nostalgia gli Hammerfall di "Glory to the brave" e i Virgin Steele di "Invictus".
Con nostalgia e amarezza... le sensazioni non sono più quelle di un tempo. Non mi esalto più, non mi emoziono più al primo riff di chitarra, non mi viene più l'istinto di cantare quelle canzoni. Gli Hammerfall soprattutto mi sono sembrati puerili, sterili, inutili. Come un film di Pieraccioni, come una canzone di Nek.
Ok, sono cambiati i gusti, sono cambiati i pensieri, sono cambiate le situazioni.
Ma il problema è che sono cambiato io, molto di più di quanto avrei creduto.
Non mi diverto più.
domenica, aprile 18
Il "gioco libro"
E giochiamo!
1. Prendi il libro più vicino.
2. Aprilo alla pagina 23.
3. Trova la prima frase degna del benché minimo interesse.
4. Posta il testo della frase nel tuo blog insieme a queste istruzioni.
"Mi chiamo Pedale, sono terrone ma il mestiere lo so fare bene come voialtri: provatemi padron Bertelli, mi contento di metà paga. Se siete contento mi prendete sotto voi!"
Lucio Mastronardi, Il calzolaio di Vigevano
(grazie a I viaggi di Palomar)
1. Prendi il libro più vicino.
2. Aprilo alla pagina 23.
3. Trova la prima frase degna del benché minimo interesse.
4. Posta il testo della frase nel tuo blog insieme a queste istruzioni.
"Mi chiamo Pedale, sono terrone ma il mestiere lo so fare bene come voialtri: provatemi padron Bertelli, mi contento di metà paga. Se siete contento mi prendete sotto voi!"
Lucio Mastronardi, Il calzolaio di Vigevano
(grazie a I viaggi di Palomar)
Insomma, almeno un pelino di giustizia in questo mondo c'è.
sabato, aprile 17
Minimi sistemi
Io devo capire una cosa, tra le tante: ma perché nelle confezione di ombretti, mettono sempre, o quasi, che qualche intelligente eccezione ammetto di averla trovata, la stessa quantità di ombretto sia della tonalità chiara che di quella scura? Così che quando di quella chiara non ce n'è più rimane più di mezza di quella scura, inutilizzata praticamente, perché ricomperando la confezione ci si ritrova poi con lo stesso problema e lo stesso disavanzo... Ma cosa costerebbe fare una confezione con una percentuale inferiore del colore più scuro, visto che lo si usa meno, forse che il pigmento chiaro è più caro?
Scusate ma il week-end mi ispira di queste domande... anche perché, essendo io di quella specie che non butta via nulla, mi ritrovo il mobile del bagno fastidiosamente pieno di "confezioni a mezzo".
Scusate ma il week-end mi ispira di queste domande... anche perché, essendo io di quella specie che non butta via nulla, mi ritrovo il mobile del bagno fastidiosamente pieno di "confezioni a mezzo".
venerdì, aprile 16
Nell'attesa...
Ho cambiato l'immagine sul mio desktop.
Questa qua.
Sono proprio esaurito.
Questa qua.
Sono proprio esaurito.
giovedì, aprile 15
Letteratura e viaggio (terza e ultima parte)
E' davvero l'ultima parte, giuro :)
Gli arretrati: qui e qui.
III. La "fine dei viaggi"
L’Ottocento e il romanticismo interpretano il viaggio, l’esotismo, l’incontro con l’altro, in vari modi, intimi e lirici, generalmente nostalgici e pessimisti. Il nostro maggior poeta romantico, Leopardi, si misura con la figura di Colombo in una canzone del 1820, Ad Angelo Mai, in cui celebra i grandi italiani del passato e tra questi la "ligure ardita prole", al quale rimprovera l’aver varcato le colonne d’Ercole, l’aver scoperto un nuovo mondo, perché il mondo se conosciuto "non cresce, anzi si scema". Nel suo idillio più celebre, l’Infinito, ci rappresenta invece un viaggio a tutti gli effetti, un viaggio della mente, della memoria e dei sensi, che si conclude con un naufragio. Naufragio che ci riporta a quello topico dell’Ulisse dantesco, ma qui gli attributi sono completamente diversi: il "naufragar" di Leopardi è "dolce", è uno smarrimento piacevole per l’anima.
Simile a questa di Leopardi è la visione di due grandi poeti francesi ottocenteschi: Baudelaire e Rimbaud. Il primo inaugura la fine degli esotismi e l’inutilità dei viaggi in un mondo ormai dominato dalla noia. Il suo testo Le Voyage si apre con l’immagine del fanciullo al quale il mondo appare grande solo quando è tradotto nelle carte geografiche, quando invece lo si è percorso in tutta la sua monotona vastità, ci si rende conto che non è così immenso. Osserva poi, con una felice definizione destinata ad avere molto successo, che i veri viaggiatori sono solo quelli "che partono per partire", ossia il vero viaggio sta solo in questo desiderio di partenza. Così come per Leopardi anche per Baudelaire l’unico viaggio possibile, ormai, è quello dell’anima, è la visione, e difatti la sua poesia è tutta costruita su una serie di allucinazioni, che approdano alla morte, unica meta possibile per trovare il "nuovo".
Rimbaud nel suo Le bateau ivre riprende questi temi: il suo battello va alla deriva e rompe ogni ancoraggio con il vecchio mondo, e alla fine della sua corsa, del suo "folle volo", incontra non solo l’ormai topico naufragio, la fine, ma anche il rimpianto per l’antico e per l’infanzia.
Il tema della "fine dei viaggi" è diffuso e caratteristico del mondo letterario novecentesco, il più famoso antropologo contemporaneo, Lévi-Strauss, ne parla in una specie di romanzo-saggio intitolato Tristi tropici: denuncia le contraddizioni del viaggiatore contemporaneo, del turismo di massa che impedisce autenticità all’esperienza. Sempre più forti sono le sollecitazioni, sempre più piccolo appare il mondo, e sempre più visto, attraverso i canali della comunicazione: viaggiare appare sempre più deludente, lo shock registrato non è certo più quello della realtà nuova, della meraviglia, ma quello del confronto tra il descritto, il riprodotto, e il reale. Uno scrittore del primo Novecento ancora squisitamente decadente, Guido Gozzano, descrive nelle sue Lettere dall’India proprio questo scarto, la delusione dell’incontro con una realtà che è molto meno bella e incantata di quella letteraria.
Arrivati al Novecento, come accade in tutti i manuali di storia della letteratura, il tragitto si fa più difficoltoso, le strade da percorrere più impervie, meno battute, meno nettamente tracciate. Per quanto riguarda il nostro tema, molti sarebbero gli autori e le opere da prendere in considerazione, sia italiane, che straniere: il viaggio erotico-gastronomico del Calvino di Sotto il sole giaguaro, l’antiretorica colonizzazione di Conrad e del nostro Flaiano, il nuovo Ulisse di Joyce ... ma magari un'altra volta: io per ora mi fermo qui.
Gli arretrati: qui e qui.
III. La "fine dei viaggi"
L’Ottocento e il romanticismo interpretano il viaggio, l’esotismo, l’incontro con l’altro, in vari modi, intimi e lirici, generalmente nostalgici e pessimisti. Il nostro maggior poeta romantico, Leopardi, si misura con la figura di Colombo in una canzone del 1820, Ad Angelo Mai, in cui celebra i grandi italiani del passato e tra questi la "ligure ardita prole", al quale rimprovera l’aver varcato le colonne d’Ercole, l’aver scoperto un nuovo mondo, perché il mondo se conosciuto "non cresce, anzi si scema". Nel suo idillio più celebre, l’Infinito, ci rappresenta invece un viaggio a tutti gli effetti, un viaggio della mente, della memoria e dei sensi, che si conclude con un naufragio. Naufragio che ci riporta a quello topico dell’Ulisse dantesco, ma qui gli attributi sono completamente diversi: il "naufragar" di Leopardi è "dolce", è uno smarrimento piacevole per l’anima.
Simile a questa di Leopardi è la visione di due grandi poeti francesi ottocenteschi: Baudelaire e Rimbaud. Il primo inaugura la fine degli esotismi e l’inutilità dei viaggi in un mondo ormai dominato dalla noia. Il suo testo Le Voyage si apre con l’immagine del fanciullo al quale il mondo appare grande solo quando è tradotto nelle carte geografiche, quando invece lo si è percorso in tutta la sua monotona vastità, ci si rende conto che non è così immenso. Osserva poi, con una felice definizione destinata ad avere molto successo, che i veri viaggiatori sono solo quelli "che partono per partire", ossia il vero viaggio sta solo in questo desiderio di partenza. Così come per Leopardi anche per Baudelaire l’unico viaggio possibile, ormai, è quello dell’anima, è la visione, e difatti la sua poesia è tutta costruita su una serie di allucinazioni, che approdano alla morte, unica meta possibile per trovare il "nuovo".
Rimbaud nel suo Le bateau ivre riprende questi temi: il suo battello va alla deriva e rompe ogni ancoraggio con il vecchio mondo, e alla fine della sua corsa, del suo "folle volo", incontra non solo l’ormai topico naufragio, la fine, ma anche il rimpianto per l’antico e per l’infanzia.
Il tema della "fine dei viaggi" è diffuso e caratteristico del mondo letterario novecentesco, il più famoso antropologo contemporaneo, Lévi-Strauss, ne parla in una specie di romanzo-saggio intitolato Tristi tropici: denuncia le contraddizioni del viaggiatore contemporaneo, del turismo di massa che impedisce autenticità all’esperienza. Sempre più forti sono le sollecitazioni, sempre più piccolo appare il mondo, e sempre più visto, attraverso i canali della comunicazione: viaggiare appare sempre più deludente, lo shock registrato non è certo più quello della realtà nuova, della meraviglia, ma quello del confronto tra il descritto, il riprodotto, e il reale. Uno scrittore del primo Novecento ancora squisitamente decadente, Guido Gozzano, descrive nelle sue Lettere dall’India proprio questo scarto, la delusione dell’incontro con una realtà che è molto meno bella e incantata di quella letteraria.
Arrivati al Novecento, come accade in tutti i manuali di storia della letteratura, il tragitto si fa più difficoltoso, le strade da percorrere più impervie, meno battute, meno nettamente tracciate. Per quanto riguarda il nostro tema, molti sarebbero gli autori e le opere da prendere in considerazione, sia italiane, che straniere: il viaggio erotico-gastronomico del Calvino di Sotto il sole giaguaro, l’antiretorica colonizzazione di Conrad e del nostro Flaiano, il nuovo Ulisse di Joyce ... ma magari un'altra volta: io per ora mi fermo qui.
lunedì, aprile 12
Nostalgia...
Un amico mi ha segnalato questo smile... qualcuno per caso si ricorda cosa vorrebbe rappresentare? :-)
sabato, aprile 10
Dall'uovo di Pasqua
Dall'uovo di Pasqua
è uscito un pulcino
di gesso arancione
col becco turchino.
Ha detto: "Vado,
mi metto in viaggio
e porto a tutti
un grande messaggio".
E volteggiando
di qua e di là
attraversando
paesi e città
ha scritto sui muri,
nel cielo e per terra:
"Viva la pace,
abbasso la guerra".
Gianni Rodari
è uscito un pulcino
di gesso arancione
col becco turchino.
Ha detto: "Vado,
mi metto in viaggio
e porto a tutti
un grande messaggio".
E volteggiando
di qua e di là
attraversando
paesi e città
ha scritto sui muri,
nel cielo e per terra:
"Viva la pace,
abbasso la guerra".
Gianni Rodari
Letteratura e viaggio (seconda parte)
Ecco la seconda parte dei "Viaggi di carta".
Segue da qui.
II. I poemi cavallereschi e i cannibali
Un genere letterario che ha trattato ampiamente di viaggi è il poema cavalleresco, fiorito in Italia tra Quattrocento e Cinquecento e che ha alle sue origini il romanzo cortese, nel quale cavalieri erranti vagavano nelle selve dell’Europa centrale con un pretesto, generalmente quello di salvare la donzella amata da un qualche pericolo.
Il nostro maggior narratore in questo senso è stato Ariosto, che quando decide di metter mano a questa materia lo fa con lo scopo di rivisitarla dal punto di vista ironico. I suoi cavalieri vagano sì alla ricerca di un loro oggetto del desiderio, che per molti di loro è la bella Angelica, per altri un elmo, un cavallo, o il senno di Orlando; ma queste inchieste si rivelano nella maggior parte dei casi vane, ed è un bene, per il lettore, perché è questo il pretesto usato per innescare infiniti gustosissimi motivi narrativi: si cerca una cosa e se ne trova un’altra, si desidera qualcuno che è desiderato anche da qualcun altro, allora ci si ostacola, ci si sfida, ci sono continui differimenti, agnizioni, riunioni... Il racconto di Ariosto è un enorme calderone, o meglio una trama fittissima, di personaggi e avventure, strettamente tenute insieme dalla maestria di un narratore abilissimo e smaliziato, coinvolto e ironico. I protagonisti delle varie vicende viaggiano continuamente, e palcoscenico delle loro peregrinazioni è tutto il globo terrestre, e non solo, viene chiamato in causa anche l’aldilà e la Luna. Il viaggio sulla Luna di Astolfo (Orlando furioso XXXIV) è infatti il più sorprendente dell’intero libro, e anche il più preziosamente e finemente intertestuale. Le fonti sono innanzi tutto l’itinerario dantesco, poi la letteratura umanistica fondata sul paradosso: Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla, Erasmo da Rotterdam... Il fine di questo viaggio è il recupero del senno di Orlando, racchiuso in un’ampolla in questo alter-mondo della Luna, in cui si trova ciò che è stato perso sulla Terra. Fortemente parodico e comico è l’episodio, l’acquisizione della ragione da parte del pellegrino è vana e provvisoria, Ariosto stesso lo fa notare, precisando che quanto è stato recuperato non tarderà ad essere perduto di nuovo, la vera conoscenza alla quale si può giungere è il riconoscere che tutto il mondo è in fondo dominato da una sottile e perversa logica di follia, che ci fa viaggiare intorno alle cose senza farcele mai possedere davvero, ed è in fondo questa la stessa logica del poema.
Altro scrittore "cavalleresco" è Tasso, che scrive cinquant’anni dopo l’Orlando furioso, la Gerusalemme liberata, poema epico di nuova generazione, calato in un clima di controriforma, risente degli sconvolgimenti politici, sociali e etici dell’epoca, e della tensione della fragile e genialmente folle mente del suo creatore. In un solo punto del racconto Tasso si lascia andare alla narrazione di un viaggio avventuroso: al Canto XV, con versi di mirabile bellezza. Per l’unica volta in tutta la Liberata viene qui usata la parola tecnica "inchiesta": un cavaliere si è perduto, e altri due cavalieri vanno a cercarlo, viaggiano in mare, costeggiando le sponde dell’Africa settentrionale, fino a raggiungere le isole dove la maga Armida tiene prigioniero l’oggetto del suo desiderio, Rinaldo. Interessante è il modo in cui vengono descritti i luoghi e i popoli africani: le cifre fondamentali sono la molteplicità, l’innumerabilità, da una parte, e il deserto, dall’altra. I popoli stranieri, i pagani, sono numerosi e vari, e per questo mostruosi e diversi: questo punto deve essere letto da una prospettiva politica, come ho detto siamo in pieno clima controriformista, a Tasso premeva mostrare i pagani come disuniti e immorali, per contrapporli all’unità e alla moralità dei cristiani. L’altra cifra è quella del deserto: vengono descritti luoghi deserti e desolati, e anche questo fa parte della denuncia: il mondo pagano è desolato, è precario, non può salvarsi ed è destinato a cadere; ma c’è un punto molto bello in cui Tasso fa un elogio di Cartagine, come ci fu raccontata dalla letteratura antica, da Omero, da Virgilio, da Lucano... perché navigare quel tratto del Mediterraneo significa ripercorrere anche delle acque letterarie. Interessante questa prospettiva duplice e contraddittoria, tipica: estinzione, giusta, del mondo pagano ma anche omaggio, pena e sofferenza per la decadenza di questo mondo in cui hanno trionfato i valori umanistici.
La prospettiva etnocentrica che ho evidenziato per le scoperte geografiche ovviamente si estendeva anche alle rappresentazioni del selvaggio: visto o come "buon selvaggio", che vive secondo natura, innocente e ingenuo, oppure come feroce, spietato e mostruoso cannibale.
Per molti decenni queste due visioni si alternano nell’immaginario europeo, l’illuminismo, in piena e razionale crisi della coscienza europea, cerca di scardinarle. In particolare Montaigne, nel suo saggio sui Cannibali, in cui il punto di vista è proprio quello del selvaggio, che guarda alla nostra società e la critica ferocemente. Il selvaggio è qui promosso a filosofo, è una maschera che Montaigne usa per poter dire cose che non avrebbe potuto/osato dire in prima persona, e viene a prendere il posto del folle, del buffone; quello, l’unico, che si può permettere di dire che il re è nudo.
(continua...)
Segue da qui.
II. I poemi cavallereschi e i cannibali
Un genere letterario che ha trattato ampiamente di viaggi è il poema cavalleresco, fiorito in Italia tra Quattrocento e Cinquecento e che ha alle sue origini il romanzo cortese, nel quale cavalieri erranti vagavano nelle selve dell’Europa centrale con un pretesto, generalmente quello di salvare la donzella amata da un qualche pericolo.
Il nostro maggior narratore in questo senso è stato Ariosto, che quando decide di metter mano a questa materia lo fa con lo scopo di rivisitarla dal punto di vista ironico. I suoi cavalieri vagano sì alla ricerca di un loro oggetto del desiderio, che per molti di loro è la bella Angelica, per altri un elmo, un cavallo, o il senno di Orlando; ma queste inchieste si rivelano nella maggior parte dei casi vane, ed è un bene, per il lettore, perché è questo il pretesto usato per innescare infiniti gustosissimi motivi narrativi: si cerca una cosa e se ne trova un’altra, si desidera qualcuno che è desiderato anche da qualcun altro, allora ci si ostacola, ci si sfida, ci sono continui differimenti, agnizioni, riunioni... Il racconto di Ariosto è un enorme calderone, o meglio una trama fittissima, di personaggi e avventure, strettamente tenute insieme dalla maestria di un narratore abilissimo e smaliziato, coinvolto e ironico. I protagonisti delle varie vicende viaggiano continuamente, e palcoscenico delle loro peregrinazioni è tutto il globo terrestre, e non solo, viene chiamato in causa anche l’aldilà e la Luna. Il viaggio sulla Luna di Astolfo (Orlando furioso XXXIV) è infatti il più sorprendente dell’intero libro, e anche il più preziosamente e finemente intertestuale. Le fonti sono innanzi tutto l’itinerario dantesco, poi la letteratura umanistica fondata sul paradosso: Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla, Erasmo da Rotterdam... Il fine di questo viaggio è il recupero del senno di Orlando, racchiuso in un’ampolla in questo alter-mondo della Luna, in cui si trova ciò che è stato perso sulla Terra. Fortemente parodico e comico è l’episodio, l’acquisizione della ragione da parte del pellegrino è vana e provvisoria, Ariosto stesso lo fa notare, precisando che quanto è stato recuperato non tarderà ad essere perduto di nuovo, la vera conoscenza alla quale si può giungere è il riconoscere che tutto il mondo è in fondo dominato da una sottile e perversa logica di follia, che ci fa viaggiare intorno alle cose senza farcele mai possedere davvero, ed è in fondo questa la stessa logica del poema.
Altro scrittore "cavalleresco" è Tasso, che scrive cinquant’anni dopo l’Orlando furioso, la Gerusalemme liberata, poema epico di nuova generazione, calato in un clima di controriforma, risente degli sconvolgimenti politici, sociali e etici dell’epoca, e della tensione della fragile e genialmente folle mente del suo creatore. In un solo punto del racconto Tasso si lascia andare alla narrazione di un viaggio avventuroso: al Canto XV, con versi di mirabile bellezza. Per l’unica volta in tutta la Liberata viene qui usata la parola tecnica "inchiesta": un cavaliere si è perduto, e altri due cavalieri vanno a cercarlo, viaggiano in mare, costeggiando le sponde dell’Africa settentrionale, fino a raggiungere le isole dove la maga Armida tiene prigioniero l’oggetto del suo desiderio, Rinaldo. Interessante è il modo in cui vengono descritti i luoghi e i popoli africani: le cifre fondamentali sono la molteplicità, l’innumerabilità, da una parte, e il deserto, dall’altra. I popoli stranieri, i pagani, sono numerosi e vari, e per questo mostruosi e diversi: questo punto deve essere letto da una prospettiva politica, come ho detto siamo in pieno clima controriformista, a Tasso premeva mostrare i pagani come disuniti e immorali, per contrapporli all’unità e alla moralità dei cristiani. L’altra cifra è quella del deserto: vengono descritti luoghi deserti e desolati, e anche questo fa parte della denuncia: il mondo pagano è desolato, è precario, non può salvarsi ed è destinato a cadere; ma c’è un punto molto bello in cui Tasso fa un elogio di Cartagine, come ci fu raccontata dalla letteratura antica, da Omero, da Virgilio, da Lucano... perché navigare quel tratto del Mediterraneo significa ripercorrere anche delle acque letterarie. Interessante questa prospettiva duplice e contraddittoria, tipica: estinzione, giusta, del mondo pagano ma anche omaggio, pena e sofferenza per la decadenza di questo mondo in cui hanno trionfato i valori umanistici.
La prospettiva etnocentrica che ho evidenziato per le scoperte geografiche ovviamente si estendeva anche alle rappresentazioni del selvaggio: visto o come "buon selvaggio", che vive secondo natura, innocente e ingenuo, oppure come feroce, spietato e mostruoso cannibale.
Per molti decenni queste due visioni si alternano nell’immaginario europeo, l’illuminismo, in piena e razionale crisi della coscienza europea, cerca di scardinarle. In particolare Montaigne, nel suo saggio sui Cannibali, in cui il punto di vista è proprio quello del selvaggio, che guarda alla nostra società e la critica ferocemente. Il selvaggio è qui promosso a filosofo, è una maschera che Montaigne usa per poter dire cose che non avrebbe potuto/osato dire in prima persona, e viene a prendere il posto del folle, del buffone; quello, l’unico, che si può permettere di dire che il re è nudo.
(continua...)
venerdì, aprile 9
Sul sito di Paola Cortellesi (questa ragazza c'ha pure il sito bello!), nella sezione "Musica" è possibile trovare una raccoltà di mp3 scaricabili, presi da "Mai dire domenica", che sono tutti delle vere chicche.
Oltre a quelli della Trippy, che sono i miei preferiti, assolutamente da non perdere è Alicia Keys.
Buon ascolto!
(grazie a chiaraaa)
Oltre a quelli della Trippy, che sono i miei preferiti, assolutamente da non perdere è Alicia Keys.
Buon ascolto!
(grazie a chiaraaa)
giovedì, aprile 8
Tanto per la cronaca...
Noi qua ci siamo già fatti fuori due belli ovoni di cioccolato, fondente naturalmente (quello al latte non venitemi a dire che è cioccolato vero!).
E altri due (ovoni) mi stanno tentando dal tavolinetto del salotto.
E mancano ancora tre giorni alla "maledetta" Pasqua...
Aiuto!
E altri due (ovoni) mi stanno tentando dal tavolinetto del salotto.
E mancano ancora tre giorni alla "maledetta" Pasqua...
Aiuto!
La libertà
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Giorgio Gaber - Da "Dialogo tra un impegnato e un non so"
(1972)
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Giorgio Gaber - Da "Dialogo tra un impegnato e un non so"
(1972)
mercoledì, aprile 7
Letteratura e viaggio (prima parte)
Ho ritrovato nella cartella dei documenti questo file che si chiama "Viaggi di carta": è un modesto articoletto che scrissi un paio d'anni fa sul viaggio nella letteratura, un esercizio per un esame all'università.
Ve lo propongo, pubblicandolo in tre parti separate, che tutto insieme ho paura annoierebbe troppo.
VIAGGI DI CARTA
Appunti di letteratura e viaggio
I. Da Odisseo all'America
Il viaggio è esperienza antropologica primaria, fondante e fondamentale per l’identità individuale e della comunità: la letteratura, di tutte le nazioni e di tutti i periodi storici, ha raccontato di viaggi e viaggiatori, attribuendo loro di volta in volta valori e metafore diverse.
L’atto stesso dello scrivere e quello del leggere, si prestano ad essere concepiti come viaggi: il testo può essere visto come un percorso che ha un suo intreccio e può avere o meno una sua meta, ma che comunque il lettore intraprende, guidato dall’autore. Figure di questo tipo le ritroviamo in molte opere letterarie, dalla Commedia, all’Orlando furioso, ai Promessi sposi, ma mi limiterò ad una sola citazione, che forse non è la più esemplare, ma sicuramente è una delle più belle: dal Cavaliere inesistente di Italo Calvino riporto questa riflessione sulla scrittura fatta dalla stessa narratrice del romanzo, Suor Teodora:
"La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c'è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli del libro. La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade. Il capitolo che attacchi e non sai ancora quale storia racconterà è come l'angolo che svolterai uscendo dal convento e non sai se ti metterà a faccia un drago, uno stuolo barbaresco, un'isola incantata, un nuovo amore."
Imbarcarsi in un tema del genere non è da prendere alla leggera: si potrebbe scrivere centinaia di pagine senza esaurire mai l’argomento, io mi limiterò a evidenziare solo alcune piste di questa mappa sterminata.
Comincio col fissare uno spartiacque: il medioevo. Come è stato notato da Leed , si può parlare per il nostro tema di una dicotomia, tra il viaggio "antico" e il viaggio "moderno".
Il primo ha come archetipi l’esodo degli ebrei nella Bibbia e l’Odisseo omerico. Questo viaggio antico si connota soprattutto nei termini di una sofferenza, di un lungo e quasi interminabile travaglio: l’espulsione dalla terra promessa, l’angoscia dell’esilio, la maledizione divina, la peregrinazione tortuosa e labirintica con nel cuore solo l’agognato ritorno... e così via.
Il viaggio moderno invece è soprattutto libertà, svago, seduzione, conoscenza, fuga. Certo, viaggiare oggi è più sicuro, è più comodo, e non si ha la paura di incorrere in qualche maledizione per aver valicato determinate colonne d’Ercole; ma ovviamente questo cambio di prospettiva è soprattutto il frutto di nuove filosofie e nuove idee.
Il primo segnale del cambiamento si ha, come ho già accennato, nel medioevo, con il padre della nostra letteratura e con una citazione colta: l’Ulisse dantesco (Inferno XXVI, 76-142). Questo Ulisse segna evidentemente e irreparabilmente una crisi: sovversivo e avventuriero, s’imbarca per un ultimo viaggio, alla fine del quale troverà il naufragio, non un nostos (ritorno) quindi, non una condanna, ma una scelta consapevole verso l’ignoto, per sete di conoscenza. Interessante mi sembra far notare che Dante non condanna Ulisse per la sua curiositas, per essere andato oltre il consentito, ma per la sua natura fraudolenta, per i suoi numerosi inganni e bugie. Dante ammira Ulisse, gli mette in bocca una "orazion picciola" che è il manifesto di quella che di lì a un secolo sarà la generazione degli umanisti. Inoltre Dante si sente coinvolto e vicino a Ulisse, perché anche lui sta viaggiando, si sta avventurando verso l’ignoto, e anche il suo è un percorso di conoscenza, ma ciò che li distingue è che il viaggio di Dante è illuminato dalla grazia e voluto da Dio, cosa che invece non era data ad Ulisse, che per ciò fallisce.
L’Ulisse dantesco, quindi, ho detto segna la modernità, modernità che però a quanto pare si annuncia in modo tragico: l’oltre che Ulisse ricerca viene a coincidere con il nulla.
L’età moderna viene tradizionalmente fatta inaugurare dal 1492, anno della scoperta dell’America, evento fondamentale anche per il nostro tema, ed evento straordinario, in cui storia e poesia si incontrano e divengono intertesti.
Le scoperte geografiche vennero lette tipologicamente: l’America non era solo il nuovo mondo, ma era anche il luogo della fantasia, dell’innocenza, era l’Eden ritrovato. Colombo è visto come novello Ulisse. Gli esploratori si imbarcano nell’impresa con il loro bagaglio culturale di secoli di storia e poesia, il loro sguardo sull’altro non è uno sguardo obiettivo ma etnocentrico, il loro giudizio è filtrato, le loro descrizioni impure, inquiete, riecheggianti di miti, di sogni, di incubi, di desideri, di speranze.
Esemplare per capire l’impatto che la nuova realtà ebbe sull’uomo dell’epoca è la lettera che Cristoforo Colombo scrive nel 1493 a Luis De Santangel, finanziatore di Ferdinando d’Aragona, per annunciare la scoperta. Una lettera molto bella dal punto di vista della freschezza e dell’ingenuità delle immagini. La "meraviglia" è la parola chiave per Colombo, e la similitudine la figura retorica più ricorrente nella sua scrittura: l’incontro con il nuovo genera in un primo tempo stupore e paura, in un secondo il confronto con il noto; non possedendo il lessico adeguato per descrivere la meraviglia della scoperta la si riporta entro i termini del quotidiano, per farci coraggio, rassicurarci e diminuire lo scarto.
La stessa operazione la farà poi Amerigo Vespucci in una serie di lettere che invia agli amici fiorentini, la più famosa quella indirizzata a Lorenzo De Medici nel 1503, scritta in elegante latino; un piccolo capolavoro della nostra letteratura umanistica. A proposito, Todorov fa notare la stranezza del nome America da Amerigo: perché non Colombia? I viaggi di Vespucci, in fondo, non sono nemmeno sicuri, lui poi non era nemmeno il capo della spedizione... eppure l’America si chiama proprio America. Todorov dice che è perché Amerigo ci ha regalato "i migliori racconti": il premio va allo scrittore, quindi, non allo scopritore. Nella sua lettera, Vespucci mira soprattutto a sbalordire i lettori; la "meraviglia" è qualcosa di indotto, di profondamente costruito, fa parte della strategia, della retorica del testo, e importante è notare anche i destinatari: scrive ad un gruppo di umanisti, di intellettuali, scrive per la gloria, Colombo invece scrive ai reali di Spagna e ai loro finanziatori, il suo intento è solo quello di giustificare la scoperta, di dimostrare che i loro soldi sono stati spesi bene.
(continua...)
Ve lo propongo, pubblicandolo in tre parti separate, che tutto insieme ho paura annoierebbe troppo.
VIAGGI DI CARTA
Appunti di letteratura e viaggio
I. Da Odisseo all'America
Il viaggio è esperienza antropologica primaria, fondante e fondamentale per l’identità individuale e della comunità: la letteratura, di tutte le nazioni e di tutti i periodi storici, ha raccontato di viaggi e viaggiatori, attribuendo loro di volta in volta valori e metafore diverse.
L’atto stesso dello scrivere e quello del leggere, si prestano ad essere concepiti come viaggi: il testo può essere visto come un percorso che ha un suo intreccio e può avere o meno una sua meta, ma che comunque il lettore intraprende, guidato dall’autore. Figure di questo tipo le ritroviamo in molte opere letterarie, dalla Commedia, all’Orlando furioso, ai Promessi sposi, ma mi limiterò ad una sola citazione, che forse non è la più esemplare, ma sicuramente è una delle più belle: dal Cavaliere inesistente di Italo Calvino riporto questa riflessione sulla scrittura fatta dalla stessa narratrice del romanzo, Suor Teodora:
"La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c'è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli del libro. La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade. Il capitolo che attacchi e non sai ancora quale storia racconterà è come l'angolo che svolterai uscendo dal convento e non sai se ti metterà a faccia un drago, uno stuolo barbaresco, un'isola incantata, un nuovo amore."
Imbarcarsi in un tema del genere non è da prendere alla leggera: si potrebbe scrivere centinaia di pagine senza esaurire mai l’argomento, io mi limiterò a evidenziare solo alcune piste di questa mappa sterminata.
Comincio col fissare uno spartiacque: il medioevo. Come è stato notato da Leed , si può parlare per il nostro tema di una dicotomia, tra il viaggio "antico" e il viaggio "moderno".
Il primo ha come archetipi l’esodo degli ebrei nella Bibbia e l’Odisseo omerico. Questo viaggio antico si connota soprattutto nei termini di una sofferenza, di un lungo e quasi interminabile travaglio: l’espulsione dalla terra promessa, l’angoscia dell’esilio, la maledizione divina, la peregrinazione tortuosa e labirintica con nel cuore solo l’agognato ritorno... e così via.
Il viaggio moderno invece è soprattutto libertà, svago, seduzione, conoscenza, fuga. Certo, viaggiare oggi è più sicuro, è più comodo, e non si ha la paura di incorrere in qualche maledizione per aver valicato determinate colonne d’Ercole; ma ovviamente questo cambio di prospettiva è soprattutto il frutto di nuove filosofie e nuove idee.
Il primo segnale del cambiamento si ha, come ho già accennato, nel medioevo, con il padre della nostra letteratura e con una citazione colta: l’Ulisse dantesco (Inferno XXVI, 76-142). Questo Ulisse segna evidentemente e irreparabilmente una crisi: sovversivo e avventuriero, s’imbarca per un ultimo viaggio, alla fine del quale troverà il naufragio, non un nostos (ritorno) quindi, non una condanna, ma una scelta consapevole verso l’ignoto, per sete di conoscenza. Interessante mi sembra far notare che Dante non condanna Ulisse per la sua curiositas, per essere andato oltre il consentito, ma per la sua natura fraudolenta, per i suoi numerosi inganni e bugie. Dante ammira Ulisse, gli mette in bocca una "orazion picciola" che è il manifesto di quella che di lì a un secolo sarà la generazione degli umanisti. Inoltre Dante si sente coinvolto e vicino a Ulisse, perché anche lui sta viaggiando, si sta avventurando verso l’ignoto, e anche il suo è un percorso di conoscenza, ma ciò che li distingue è che il viaggio di Dante è illuminato dalla grazia e voluto da Dio, cosa che invece non era data ad Ulisse, che per ciò fallisce.
L’Ulisse dantesco, quindi, ho detto segna la modernità, modernità che però a quanto pare si annuncia in modo tragico: l’oltre che Ulisse ricerca viene a coincidere con il nulla.
L’età moderna viene tradizionalmente fatta inaugurare dal 1492, anno della scoperta dell’America, evento fondamentale anche per il nostro tema, ed evento straordinario, in cui storia e poesia si incontrano e divengono intertesti.
Le scoperte geografiche vennero lette tipologicamente: l’America non era solo il nuovo mondo, ma era anche il luogo della fantasia, dell’innocenza, era l’Eden ritrovato. Colombo è visto come novello Ulisse. Gli esploratori si imbarcano nell’impresa con il loro bagaglio culturale di secoli di storia e poesia, il loro sguardo sull’altro non è uno sguardo obiettivo ma etnocentrico, il loro giudizio è filtrato, le loro descrizioni impure, inquiete, riecheggianti di miti, di sogni, di incubi, di desideri, di speranze.
Esemplare per capire l’impatto che la nuova realtà ebbe sull’uomo dell’epoca è la lettera che Cristoforo Colombo scrive nel 1493 a Luis De Santangel, finanziatore di Ferdinando d’Aragona, per annunciare la scoperta. Una lettera molto bella dal punto di vista della freschezza e dell’ingenuità delle immagini. La "meraviglia" è la parola chiave per Colombo, e la similitudine la figura retorica più ricorrente nella sua scrittura: l’incontro con il nuovo genera in un primo tempo stupore e paura, in un secondo il confronto con il noto; non possedendo il lessico adeguato per descrivere la meraviglia della scoperta la si riporta entro i termini del quotidiano, per farci coraggio, rassicurarci e diminuire lo scarto.
La stessa operazione la farà poi Amerigo Vespucci in una serie di lettere che invia agli amici fiorentini, la più famosa quella indirizzata a Lorenzo De Medici nel 1503, scritta in elegante latino; un piccolo capolavoro della nostra letteratura umanistica. A proposito, Todorov fa notare la stranezza del nome America da Amerigo: perché non Colombia? I viaggi di Vespucci, in fondo, non sono nemmeno sicuri, lui poi non era nemmeno il capo della spedizione... eppure l’America si chiama proprio America. Todorov dice che è perché Amerigo ci ha regalato "i migliori racconti": il premio va allo scrittore, quindi, non allo scopritore. Nella sua lettera, Vespucci mira soprattutto a sbalordire i lettori; la "meraviglia" è qualcosa di indotto, di profondamente costruito, fa parte della strategia, della retorica del testo, e importante è notare anche i destinatari: scrive ad un gruppo di umanisti, di intellettuali, scrive per la gloria, Colombo invece scrive ai reali di Spagna e ai loro finanziatori, il suo intento è solo quello di giustificare la scoperta, di dimostrare che i loro soldi sono stati spesi bene.
(continua...)