<$BlogRSDURL$>

giovedì, aprile 15

Letteratura e viaggio (terza e ultima parte) 

E' davvero l'ultima parte, giuro :)
Gli arretrati: qui e qui.

III. La "fine dei viaggi"

L’Ottocento e il romanticismo interpretano il viaggio, l’esotismo, l’incontro con l’altro, in vari modi, intimi e lirici, generalmente nostalgici e pessimisti. Il nostro maggior poeta romantico, Leopardi, si misura con la figura di Colombo in una canzone del 1820, Ad Angelo Mai, in cui celebra i grandi italiani del passato e tra questi la "ligure ardita prole", al quale rimprovera l’aver varcato le colonne d’Ercole, l’aver scoperto un nuovo mondo, perché il mondo se conosciuto "non cresce, anzi si scema". Nel suo idillio più celebre, l’Infinito, ci rappresenta invece un viaggio a tutti gli effetti, un viaggio della mente, della memoria e dei sensi, che si conclude con un naufragio. Naufragio che ci riporta a quello topico dell’Ulisse dantesco, ma qui gli attributi sono completamente diversi: il "naufragar" di Leopardi è "dolce", è uno smarrimento piacevole per l’anima.
Simile a questa di Leopardi è la visione di due grandi poeti francesi ottocenteschi: Baudelaire e Rimbaud. Il primo inaugura la fine degli esotismi e l’inutilità dei viaggi in un mondo ormai dominato dalla noia. Il suo testo Le Voyage si apre con l’immagine del fanciullo al quale il mondo appare grande solo quando è tradotto nelle carte geografiche, quando invece lo si è percorso in tutta la sua monotona vastità, ci si rende conto che non è così immenso. Osserva poi, con una felice definizione destinata ad avere molto successo, che i veri viaggiatori sono solo quelli "che partono per partire", ossia il vero viaggio sta solo in questo desiderio di partenza. Così come per Leopardi anche per Baudelaire l’unico viaggio possibile, ormai, è quello dell’anima, è la visione, e difatti la sua poesia è tutta costruita su una serie di allucinazioni, che approdano alla morte, unica meta possibile per trovare il "nuovo".
Rimbaud nel suo Le bateau ivre riprende questi temi: il suo battello va alla deriva e rompe ogni ancoraggio con il vecchio mondo, e alla fine della sua corsa, del suo "folle volo", incontra non solo l’ormai topico naufragio, la fine, ma anche il rimpianto per l’antico e per l’infanzia.

Il tema della "fine dei viaggi" è diffuso e caratteristico del mondo letterario novecentesco, il più famoso antropologo contemporaneo, Lévi-Strauss, ne parla in una specie di romanzo-saggio intitolato Tristi tropici: denuncia le contraddizioni del viaggiatore contemporaneo, del turismo di massa che impedisce autenticità all’esperienza. Sempre più forti sono le sollecitazioni, sempre più piccolo appare il mondo, e sempre più visto, attraverso i canali della comunicazione: viaggiare appare sempre più deludente, lo shock registrato non è certo più quello della realtà nuova, della meraviglia, ma quello del confronto tra il descritto, il riprodotto, e il reale. Uno scrittore del primo Novecento ancora squisitamente decadente, Guido Gozzano, descrive nelle sue Lettere dall’India proprio questo scarto, la delusione dell’incontro con una realtà che è molto meno bella e incantata di quella letteraria.

Arrivati al Novecento, come accade in tutti i manuali di storia della letteratura, il tragitto si fa più difficoltoso, le strade da percorrere più impervie, meno battute, meno nettamente tracciate. Per quanto riguarda il nostro tema, molti sarebbero gli autori e le opere da prendere in considerazione, sia italiane, che straniere: il viaggio erotico-gastronomico del Calvino di Sotto il sole giaguaro, l’antiretorica colonizzazione di Conrad e del nostro Flaiano, il nuovo Ulisse di Joyce ... ma magari un'altra volta: io per ora mi fermo qui.